Il ricco del nostro racconto è gaudente e la sua principale preoccupazione è quella di godere; egli nuota nell’abbondanza e nei piaceri, veste elegantemente e fa festa ogni giorno, conduce una vita spensierata nel lusso e nella ricchezza. Invece il povero Lazzaro è nell’indigenza; giace debole e ammalato alla porta del ricco. Il contrasto, qui, non è tanto tra la ricchezza e povertà, ciò che sorprende è che il povero e il ricco sono vicini, ma il ricco non si accorge del povero. La loro vicinanza non crea nessun legame di solidarietà, anzi, il ricco ignora completamente il povero Lazzaro che non riesce a sfamarsi neppure con le briciole che cadono dalla sua tavola.
Lazzaro è così mal ridotto che persino i cani gli leccano le ferite. Un uomo abbandonato al suo destino, un destino amaro e crudele. Il ricco non si è mai degnato di volgere il suo sguardo al povero Lazzaro, non si è mai lasciato commuovere da quell’uomo ricoperto di ulceri, affamato e sofferente. Per lui, Lazzaro semplicemente non esiste. Illustrando questa storia, Gesù introduce una nota polemica contro la mentalità del tempo. Molti pensavano che ognuno avesse la vita che si meritava: il ricco la ricchezza, il povero la povertà. Si pensava che la ricchezza fosse il segno della benedizione divina. Gesù contesta anche questa opinione, smentisce e capovolge le convinzioni degli uomini.
Il giudizio di Dio capovolge tutto!
Il ricco e Lazzaro muoiono. Lazzaro viene portato dagli angeli nel «seno di Abramo», mentre il ricco finisce nel tormento dell’Ades (Ebbene ricordare che le immagini che Gesù utilizza per descrivere l’aldilà si adattano alla mentalità del tempo, ma non sta qui la forza della parabola). Che cosa è successo? È successo che la condizione dei due uomini si è ora ribaltata, Dio ha invertito il destino dei due uomini.
Il ricco non è condannato per partito preso, non in quanto possedeva ricchezze, bensì per il fatto che non ha saputo o voluto condividere i suoi beni con il povero Lazzaro. Il suo egoismo lo ha portato a chiudere gli occhi e il cuore dinanzi alle necessità e alla sofferenza di Lazzaro. Il ricco, come i farisei, ha pensato alla sua ricchezza come a un segno del favore di Dio, e alla povertà di Lazzaro come ad una maledizione. Non solo. Sicuro di sé il ricco ostenta la sua ricchezza. Con l’avvento del Regno di Dio Gesù annuncia che i poveri e diseredati sono invece al centro dell’amore di Dio, di un Dio che dichiara «beati i poveri» (Luca 6, 20) e «innalza gli umili» (Luca 1, 56).
E’soprattutto l’evangelista Luca a comprendere che <<la prosperità getta un’ombra sulla vita umana e sono i poveri a essere oggetto della particolare cura di Dio. In nessun altro luogo questa convinzione è più evidente che nella parabola del ricco e Lazzaro>> (Fred B. Craddoch).
Il ricco è condannato per la sua mancanza di amore nei confronti del povero Lazzaro. È il suo egoismo ad essere messo sotto accusa.
Gesù ci aiuta a comprendere che nel tempo nuovo della salvezza messianica, le carte si mescolano, i destini cambiano, che ora l’evangelo è «annunciato a poveri» (Luca 4, 18-19). Dio viene a cercare tutti coloro che in questo mondo sono disprezzati e che non hanno più voce per gridare la loro sofferenza. I farisei, dal canto loro, sono scandalizzati proprio dal fatto che Gesù proclama la buona novella ai poveri, agli ammalati, agli indemoniati, ai ciechi, agli zoppi, a coloro che soffrono e che sono considerati peccatori.
La parabola ci insegna molte cose.
Innanzitutto è un invito a vivere con concretezza e serietà il comandamento dell’amore per il prossimo. Alla richiesta di aiuto cerchiamo di non restare indifferenti. Nel caso del ricco, infatti, egli non osteggia Dio e non opprime il povero, semplicemente non lo vede. Non possiamo fare come il ricco che ignora il povero Lazzaro. Erano così vicini ma così distanti.
Ciò che questa pagina dell’evangelo vuole dirci, lo si può sintetizzare con ciò che scrive l’apostolo Giacomo quando sollecita i credenti ad avere una fede operosa, un fede che sappia portare dei frutti, che sono i frutti dell’amore, della solidarietà, della condivisione.
«A che serve – dice Giacomo – fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andate in pace, scaldatevi e saziatevi, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve? Così è della fede; se non ha opere, è per se stessa morta» (Giacomo 2, 14-17).
Il ricco è “condannato” non per la sua ricchezza, ma per il fatto che nella sua abbondanza non ha voluto dividere il suo pane con il povero Lazzaro. Gesù ci invita a saper guardare al prossimo vicino a noi, a colui o colei che ci siede accanto e che spesso non conosciamo.
Qualsiasi appiglio il ricco e i farisei trovassero nella Scrittura per giustificare il loro amore per il danaro(16,14), sta di fatto che la situazione presentata dal nostro racconto è una violazione di quella stessa Scrittura. La legge del Levitico (19, 9-10) prescriveva che parte del raccolto fosse condiviso con i poveri e gli stranieri. E per il Deuteronomio (15,7-11) <<non chiuderai la mano dinanzi al tuo fratello bisognoso, anzi, gli aprirai largamente la mano e gli presterai tutto ciò che gli serve per le necessità in cui si trova>>. Gesù restituisce alla <<Legge e ai profeti>> il suo significato e valore.
Il teologo evangelico Visser’t Hooft ha scritto che «un cristianesimo che perdesse la propria dimensione verticale avrebbe perso il suo sale e non sarebbe solamente insipido, ma senza utilità per il mondo. Ma un cristianesimo che utilizzasse le preoccupazioni verticali come mezzo per sfuggire le sue responsabilità riguardanti l’essere umano e la sua vita non sarebbe nient’altro che un rifiuto dell’incarnazione». Una predicazione senza la diaconia (il servizio al prossimo) non è credibile, ma una diaconia senza la predicazione è muta.
Un profeta di molti secoli fa dinanzi al triste spettacolo dell’ingiustizia aveva capito molto bene quale culto Dio gradiva dal suo popolo:
«Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi, che si spezzi ogni tipo di giogo?
Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo ricopra, e che tu non ti nasconda a colui che è carne della carne?» (Isaia 58, 6-7).
Un altro profeta, secoli dopo Isaia, poteva invece dire: «Quando lo fate ad uno di questi minimi è come se l’aveste fatto a me» (Matteo 25, 31ss).
Il vivere da ricco rende ciechi. Il ricco condannato agli inferi vorrebbe che i suoi fratelli fossero avvertiti. Ma a che servirebbe avvertirli? Hanno già i profeti e Mosè, non occorre altro. Gesù ci dice che non sono le voci che mancano, non sono le verifiche di cui abbiamo bisogno, ma la libertà per comprendere, la lucidità per vedere. AMEN
ROVIGO, 16 aprile 2012 - Emanuele Casalino