Il serpente di rame nel deserto
Numeri 21,4-9
4 Poi gli Israeliti partirono dal monte Or, andarono verso il mar Rosso per fare il giro del paese di Edom; durante il viaggio il popolo si perse d’animo. 5 Il popolo parlò contro Dio e contro Mosè, e disse: «Perché ci avete fatti salire fuori d’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua, e siamo nauseati di questo cibo tanto leggero». 6 Allora il SIGNORE mandò tra il popolo dei serpenti velenosi i quali mordevano la gente, e gran numero d’Israeliti morirono. 7 Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il SIGNORE e contro di te; prega il SIGNORE che allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo. 8 Il SIGNORE disse a Mosè: «Fòrgiati un serpente velenoso e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà morso, se lo guarderà, resterà in vita». 9 Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita.
Giovanni 3,14-15
14 «E, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, 15 affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna».
Conoscete questo simbolo? Il suo nome tecnico è uroboro. Si tratta di un simbolo antichissimo, molto affascinante, che rappresenta un serpente che si morde la coda. È un simbolo che si trova raffigurato in civiltà e scuole arcaiche, quale era ad esempio quella egiziana dove sembrerebbe essere comparso per la prima volta. Ma è stato ritrovato anche in raffigurazioni della corrente cristiana gnostica, della mitologia dei popoli scandinavi, della tradizione alchemica e, persino, dell’arte dei popoli indigeni del Sud America fino ad arrivare alla pittura giapponese. In tutte queste culture antiche e lontane, il serpente che si morde la coda simboleggiava unità, infinito, eternità, immortalità, eterno ritorno, il ciclo della vita che inizia, finisce e inizia di nuovo. E anche nelle culture dei popoli del Vicino Oriente, ai tempi dell’esodo del popolo d’Israele nel deserto, al serpente venivano attribuite molte valenze simboliche: da una parte, era simbolo di male, di tentazione, di caos e di morte; dall’altra parte, era simbolo di fertilità, di guarigione, di rinnovamento e di vita. Detto in poche parole, il serpente era simbolo di morte e, allo stesso tempo, di vita.
In effetti, anche nel racconto biblico che abbiamo letto possiamo riscontrare questa ambivalenza dei serpenti. Essi simboleggiano proprio il pericolo e la morte in una prima parte, per poi simboleggiare alla fine la via di salvezza e di vita. Allora, vorrei provare a esplorare con voi questo cambiamento di significato dei serpenti in questa storia biblica e cercare di capire insieme come tutto questo dovrebbe interessarci e riguardare la nostra fede cristiana.
Nella prima parte della storia, i serpenti compaiono come animali pericolosi, insidiosi, velenosi, pronti ad attaccare il popolo d’Israele che cammina nel deserto. Ma fermiamoci un attimo e facciamo un passo indietro per capire come mai compaiono questi serpenti. Siamo ancora nel deserto, stavolta c’è il popolo d’Israele che ha lasciato il monte Or per dirigersi verso il Mar Rosso. Siamo quasi alla fine dei quarant’anni di cammino nel deserto. Molte persone del popolo già non ce l’hanno fatta ad arrivare fino a quel giorno; persino uno dei principali leader, Aaronne, il fratello di Mosè, è da poco stato chiamato alla casa di Dio. Le giovani generazioni che erano partite dall’Egitto ormai si sono fatte vecchie e la fatica del cammino inizia a farsi sentire di nuovo.
Per tutte queste ragioni, il popolo d’Israele riprende a lamentarsi, non solo con Mosè ma direttamente con Dio. Le persone hanno paura di morire nel deserto, come è già successo ad alcuni loro antenati. Alcuni si pentono di aver lasciato l’Egitto; anche se vivevano schiavizzati, si convincono che comunque fosse meglio vivere così, piuttosto che morire nel deserto. Altri ancora si lamentano di non avere abbastanza acqua e cibo, e sono stufi di continuare a mangiare quel poco di manna che il Signore manda loro dal cielo per proseguire il cammino verso la terra promessa. La sfiducia, lo scoraggiamento, la stanchezza hanno raggiunto il livello massimo e non resta da fare altro che lamentarsi e dubitare della fedeltà di Dio.
Ed è qui che entrano in scena i serpenti velenosi. Dopo aver ascoltato i lamenti del suo popolo, Dio decide di interviene. Stavolta, però, interviene in un modo incomprensibile e sceglie di mandare dei serpenti velenosi per insidiare il suo popolo. Non sembra il Dio d’amore del quale ci è stato raccontato; sembra piuttosto trattarsi di un Dio vendicativo e castigatore. O, forse, semplicemente chi ha scritto questo racconto ha interpretato quell’evento come una punizione di Dio, come anche facciamo noi quando ci comportiamo male e subito ci succede una disgrazia. Sta di fatto che i membri del popolo d’Israele si ritrovano, a motivo della loro mancanza di fiducia, circondati da serpenti pericolosi che li mordono e che li uccidono con il loro veleno. Il popolo si trova così non solo alle prese con l’arsura e la desolazione del deserto, ma anche con la minaccia dei serpenti.
Nel deserto e circondati dai serpenti, proprio così ci sentiamo spesso anche noi nelle nostre vite. Sempre di più ci sembra di vivere in un mondo pericoloso, pieno di minacce, di conflitti, di insidie che possono colpirci da un momento all’altro. Ci sembra di vivere in un mondo che giorno dopo giorno si sta incamminando passo dopo passo verso un baratro. Ci sembra di vivere in un mondo che si sta veramente trasformando in un grande deserto a causa della crisi climatica che ogni anno segna nuovi record in termini di fenomeni atmosferici estremi. Anche noi, ci sentiamo spesso in pericolo nel deserto del nostro mondo in preda ai tanti serpenti mortali che mordono e uccidono vite innocenti, proprio come succede agli israeliti in questo racconto.
Così, in quella situazione terribile di vita o di morte, coloro che erano riusciti a sopravvivere ai primi attacchi dei serpenti si pentono. È successo poche volte che i membri del popolo si pentissero in questo modo, eppure lo fanno. Si pentono. Riconoscono di non essersi fidati di Dio e chiedono ancora una volta a Mosè di intercedere per loro affinché Dio allontani i serpenti che li avevano attaccati.
Allora, Mosè prega per il suo popolo e il Signore interviene di nuovo. Stavolta, però, interviene fornendo una via di fuga, ossia dice a Mosè di forgiare un serpente di rame e di metterlo su un’asta affinché chiunque lo veda mentre sarà morso dai serpenti velenosi non morirà ma riuscirà a sopravvivere. Dio risponde nelle necessità, ma non come il popolo aveva chiesto. Infatti, non allontana i serpenti, ma fornisce una possibilità tra i serpenti per uscirne vivi. Dio non scaccia via la minaccia, ma fornisce il mezzo per salvarsi. In mezzo ai pericoli del deserto, il Signore chiede ancora una volta un atto di obbedienza e di fedeltà ai membri del suo popolo. Chiede di guardare verso il serpente di rame posto sul bastone di Mosè come atto di fede per trovare la propria salvezza.
Certo, non so come la pensate voi, ma io credo che in questa storia Dio non la faccia facile. Tra tutte le soluzioni, proprio un serpente di rame deve essere il simbolo di salvezza? Possibile che inviti a cercare un altro serpente tra tutti i serpenti che li assediano, pure con il rischio di sbagliarsi nell’annebbiamento provocato dal calore del deserto? Possibile che Dio fornisca una via di salvezza così simile a ciò che vuole uccidere? È proprio così. La verità è che anche noi, mentre camminiamo nel deserto del nostro mondo e delle nostre vite, siamo tentati/e di scambiare spesso ciò che ci salva con ciò che invece ci distrugge. Anche noi rischiamo di guardare ai nostri idoli, credendo che ci salveranno, senza accorgerci che, invece, sono proprio loro i serpenti pronti a morderci e a distruggerci. Non è semplice scorgere Dio in mezzo a tutto ciò che ci circonda. Ma, soprattutto, la domanda è un’altra: qual è il nostro serpente di rame al quale guardare per trovare la salvezza? Qual è il nostro punto di riferimento in mezzo ai serpenti che ci assediano, pronti a morderci e ad avvelenarci?
Per il popolo guidato da Mosè era certamente il Dio d’Israele, che era stato fedele, che lo aveva nutrito nel deserto e che lo avrebbe liberato ancora una volta dai pericoli per condurlo verso la terra promessa. Ma per noi cristiani il nostro serpente di rame è ben descritto nelle parole che Gesù rivolge a Nicodemo nel Vangelo di Giovanni: «E, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna» (Giovanni 3,14-15). Eccola la nostra salvezza nel mezzo dei pericoli, delle guerre, dei conflitti, della crisi climatica, delle minacce di questo mondo: Gesù Cristo, nostro Signore, colui che verrà innalzato e morirà sulla croce per amore dell’umanità; ma, allo stesso tempo, colui che verrà innalzato da Dio e risusciterà a nuova vita il terzo giorno.
Proprio come l’uroboro, il serpente che si morde la coda, che muore e rinasce in sé stesso, così Gesù morirà e rinascerà in sé stesso. L’imminente morte ignobile sulla croce non è altro che il preambolo della sua risurrezione. Chi crede in lui, chi riuscirà a guardarlo nel mezzo delle difficoltà della vita, chi lo seguirà attraverso le insidie del mondo, chi non si scoraggerà e seguirà il cammino, può aver fiducia che verrà condotto verso la pace e verso la vita.
Fratelli e sorelle, continuiamo a camminare nel deserto, senza perderci d’animo, seguendo la croce che segna il nostro orizzonte, nella consapevolezza che presto conosceremo anche noi la nostra salvezza e assaggeremo i dolci frutti della nuova terra.