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di Johanna Rossi Mason
Fa parte della nostra quotidianità. Ma negli ultimi tempi è finito sotto i riflettori della scienza: può rivelarsi un fattore di rischio per diverse malattie. A patto che non si cambi qualche abitudine
Già Ippocrate e Galileo non consideravano il latte un alimento appropriato all’uomo nonostante ne riconoscessero l’alto potere nutritivo, in parte forse a causa delle condizioni climatiche che lo rendevano, in mancanza dei moderni metodi di conservazione, un prodotto deperibile.
Solo certe popolazioni del Nord Europa consumavano abitualmente latti animali, mentre il consumo di latte vaccino è relativamente recente. Il latte è diventato un alimento quotidiano nel dopoguerra e ha ridotto l’incidenza delle morti per fame, ma oggi che il mondo occidentale è ipernutrito non sembra più essere il meraviglioso alimento di un tempo.
Latte e formaggi sono saliti sul banco degli imputati: recenti ricerche hanno sollevato importanti dubbi sul fatto che il latte non umano sia un alimento davvero necessario dopo lo svezzamento. Favorirebbe il diabete, le malattie cardiovascolari e alcuni tipi di cancro, e il suo effetto protettivo sulle ossa e l’osteoporosi sarebbe poco più di una leggenda metropolitana.
Ormai è assodato che tutti i bambini dovrebbero essere allattati esclusivamente al seno per i primi sei mesi di vita, ma l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unicef si sono spinte oltre, suggerendo che l’allattamento materno può essere prolungato fino a due anni di età secondo il desiderio di mamma e bambino.
«Nei primi anni di vita è necessario proteggere i bambini da carenze di ferro, acidi grassi essenziali e vitamine, e da eccessi di proteine e grassi tipici del latte vaccino», spiega Claudio Maffeis, professore di pediatria presso l’università di Verona e responsabile dell’Unità di nutrizione clinica e obesità. Ma nonostante questa raccomandazione sia ben chiara al 96,2 per cento dei pediatri, secondo un’indagine Eurisko tra il 6° e il 9° mese di vita assumono latte vaccino tra il 17,5 e il 19,5 per cento dei bambini e il 64 per cento delle mamme a 12 mesi ha già introdotto il latte di vacca».
Anche le Linee Guida dell’American Academy of Pediatrics sconsigliano l’uso di latte vaccino nel primo anno di vita argomentando che questo alimento apporta un eccesso di proteine e sali minerali, ha poco ferro e scarsamente biodisponibile oltre a essere causa di micro-emorragie intestinali che predispongono al rischio di anemia in età infantile.
Vediamo allora in dettaglio tutte le criticità di questo alimento.
Le note dolenti
Intolleranza. Il latte è anche ricco di carboidrati (da 7 a 10 g per 100 g), prevalentemente lattosio (90 per cento): nell’intestino tenue la «lattasi» ha il compito di scindere il lattosio nelle sue componenti più semplici, ma il 70 per cento della popolazione mondiale (in Europa la percentuale varia dal 15 al 50 per cento) è carente dell’enzima. «Nessun mammifero continua a bere latte dopo lo svezzamento», spiega la dottoressa Anna Villarini, biologo nutrizionista presso l’Istituto nazionale tumori di Milano, «e se gran parte della razza caucasica tollera il lattosio, il 70 per cento della popolazione mondiale perde o riduce fortemente l’attività dell’enzima. Presentano disturbi da intolleranza al lattosio circa il 70 per cento degli afroamericani, il 90 per cento degli americani di origine asiatica, il 53 per cento degli americani con radici messicane e il 74 per cento dei nativi. L’intolleranza si manifesta con gonfiore, diarrea, flatulenza e altri disturbi intestinali».
Latte e malattie cardiovascolari, dipende. Latte e derivati apportano il 10 per cento del colesterolo totale e ancora meno se ci si attiene alle porzioni indicate nella «Piramide Vegetariana» che calcolano una porzione di latticini uguale a 20 g di prodotto. «La maggior parte degli studi osservazionali non evidenzia un’associazione tra consumo di latticini e aumento di malattie cardiovascolari, ictus e disturbi a carico delle coronarie», sottolinea Villarini, «ma una ricerca apparsa su Advanced Nutrition condotta da Peter Huth ha evidenziato che una dieta ricca di grassi saturi presenti nel latte intero e nel burro aumenta i livelli di colesterolo Ldl e di insulina nel sangue. È anche vero che se non si esagerasse con il consumo di latte, il latte fosse di qualità e munto da vacche libere di pascolare in alta montagna e di mangiare erba di campo il rischio si ridurrebbe drasticamente, come evidenza uno studio condotto recentemente in Svizzera».
Aumenta il rischio di tumore? Il prodotto della mungitura è di recente salito sul banco degli imputati come fattore di rischio per alcuni tipi di tumore. Relazione causata dall’azione delle proteine del latte, responsabili di aumentare i livelli plasmatici di Igf-1 un fattore ormai riconosciuto come infiammatorio e correlato alla crescita di tutte le cellule tra cui quelle tumorali. I maschi con alti livelli di Igf-1 presenterebbero un rischio 4 volte maggiore di sviluppare un tumore prostatico. E numerosi studi (in vitro e in vivo) evidenziano un’associazione tra crescita della cellula tumorale e rischio di tumori, mammella, colon, ovaio e probabilmente altri. Pur se il consumo di latte animale non risulta un vero e proprio fattore di rischio, ci sono sempre più evidenze che faciliti la crescita della massa tumorale. «Sappiamo che una modificazione importante della dieta orientata ad alimenti di origine vegetale è in grado di prevenire anche le recidive di un tumore, anche se non sempre tale indicazione è data dagli oncologi», spiega Marina Aimati Nutrizionista della Fondazione per la lotta all’obesità infantile.
Utile per il calcio nelle ossa? Il fabbisogno di calcio varia secondo l’età: è massimo nella fase dello sviluppo fino ai 25 anni (1200 mg al giorno) e cala nella vita adulta quando il fabbisogno si aggira intorno agli 800 mg al giorno per tornare ad aumentare in gravidanza, durante l’allattamento e nella terza età.
Autorevoli centri di ricerca nel mondo stanno ridimensionando quello che sembrava un dogma, ossia che il latte facesse bene alle ossa e le proteggesse. L’imponente Harvard Health Nurse Study ha valutato circa 75 mila donne per 12 anni e rilevato che quelle con un aumentato consumo di latticini presentavano una percentuale di fratture più elevato di quelle che ne consumavano meno. «Le donne che bevevano tre bicchieri di latte al giorno avevano più fratture di quelle che lo assumevano in dosi più modeste», dice Villarini. Sembra che il latte si comporti da usuraio nei confronti dell’osso perché offre il calcio che serve alla sua costruzione, ma poi ne usa una parte per tamponare l’acidità del sangue modificata dalle proprie proteine. Un minerale molto prezioso perché oltre a contribuire alla stabilità dello scheletro, ha un ruolo di rilievo anche nella coagulazione del sangue, nella conduzione degli impulsi nervosi e nella contrazione muscolare. «Generalmente vengono consigliate come fonti di calcio latte e yogurt mentre più di recente si è compreso come siano da preferire fonti come l’acqua (oligominerale a elevato contenuto di calcio) la frutta secca come le mandorle, semi come il sesamo, ma anche la soia e le crocifere, verdure a foglia verde come cavoli, verde, broccoli se scottate in acqua per disattivare i fattori antinutrizionali, ecc. Inoltre il vero rischio per la frattura ossea sembra essere la carenza di vitamina D senza la quale non è possibile l’assorbimento del calcio. Questa vitamina è presente in pochissimi alimenti (tra i maggiori l’olio di pesce) ma si produce attraverso l’esposizione della pelle alla luce solare. Linee guida internazionali, poi, prevedono già per la prevenzione delle fratture ossee tre livelli di intervento: screening, attività fisica regolare ed eventuali terapie, mentre non citano il consumo giornaliero di latte», sottolinea Villarini.