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ANNO XII - 25 Settembre 2018
"Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo" (Galati 6:2)
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Il sogno laico della scuola
di Nicola Pantaleo


Potrebbe apparire a prima vista un esercizio solipsistico di lamentoso vittimismo segnalare la carenza di laicità nell’istruzione pubblica e paventare la prevaricazione confessionale sulle sorti dell’educazione in Italia. Una polemica da laicisti arrabbiati, una “fissa” da protestanti eternamente polemici. Ma non è proprio così. Sono i fatti nella loro nuda crudezza a smentire questo stereotipo. La scuola di tutti non è in ogni caso tale se le minoranze, come accade di fatto e con preoccupante frequenza, non vengono sufficientemente ed effettivamente garantite. Ciò che accade nella scuola, di cui si proverà a declinare alcuni fatti sintomatici, è il riflesso inevitabile di un ritardo culturale più generale che è anche figlio di un peccato originale: l’assenza a tutt’oggi di una legge quadro sulla libertà religiosa nel nostro Paese. Non sono mancati tentativi in questa direzione e in più di un’occasione disegni di legge sono stati presentati e discussi in Parlamento, ma tutti sono abortiti di fronte all’offensiva scatenata dalle forze clericali e della destra, tra cui si è distinto con maggiore virulenza un movimento politico che sembrava anni luce lontano da una partigianeria filo-cattolica per i suoi recenti trascorsi paganeggianti: la Lega nord. Di fatto la discussione si è fatalmente arenata e l’incerta vicenda delle legislature ha segnato la sconfitta di ogni sforzo riformatore. Né conforta il contentino degli accordi costituzionali. L’art. 8 della Costituzione, che prevede la stipula di Intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica, è infatti lungi dall’essere applicato pienamente, lasciando fuori segmenti religiosi rilevanti, alimentati dall’immigrazione. E d’altra parte la materia che vi è contenuta viene spesso ignorata o apertamente contraddetta nella prassi. In ogni caso si tratta di un’iso1a in un mare di confessionalismo dilagante che contagia le istituzioni e che marca di singolarità negativa il caso Italia. Così per alcune fedi la legge vigente è ancora quella dei culti ammessi della legislazione fascista-concordataria, e l’abrogazione nella Revisione dei Patti lateranensi del 1984 della norma che sanciva l’identità cattolica dello Stato Italiano si dimostra sovente una utopia di difficile realizzazione. Non vi è cerimonia ufficiale che non veda un vescovo o un porporato sedere al fianco di autorità civili e militari, ossequiato e riverito. Non si dà dibattito televisivo su questioni di natura etica che non dia spazio unicamente a un esponente cattolico, come se la Chiesa di Roma avesse l’esclusiva della sfera religiosa. E viceversa. La festa patronale vede il sindaco capeggiare intrepidamente la relativa processione. Sui simboli religiosi le cose non vanno molto meglio. Immagini della Vergine e di padre Pio, un santo dalla recente grande fortuna, dominano gli angoli dei corridoi di tutti gli ospedali, pubblici e privati, e nessuno si domanda se per caso non siano incongrui in istituzioni pensate per tutti. Recentemente è infuriata la battaglia dei crocifissi. Le prime avvisaglie erano iniziate quando il giudice Luigi Tosti ne aveva chiesto la rimozione dalle aule in cui esercitava la sua funzione. Seguirono reazioni estremamente violente, come se si fosse trattato di una ignobile bestemmia. Dopo alterne vicende giudiziarie a essere rimosso è stato il magistrato riottoso, mentre il crocifisso è rimasto come presidio di un cattolicesimo indefettibile. Nella scuola le cose sono andate anche peggio. Come si ricorderà, una signora finlandese, madre di due alunni che frequentavano la scuola statale, si è rivolta alle autorità giudiziarie per ottenere che nelle aule dei figli non figurasse l’ostensione del crocifisso, che a suo parere pregiudicava la laicità di un luogo pubblico. Sconfitta nelle istanze nazionali, si è rivolta alla Corte europea, che con una prima sentenza ne ha riconosciuto le ragioni, ma poi con il verdetto definitivo e nella composizione allargata ha fatto vincere la controparte, che nella fattispecie era capeggiata da un bellicosissimo governo italiano. In Italia dunque non è possibile dissentire da un conformismo religioso che spesso si avvale del braccio secolare per imporsi e non ammette eccezioni. La Chiesa cattolica ha certamente una responsabilità in questo stato di cose, ma ci si sarebbe attesi che le autorità civili svolgessero un ruolo autonomo, rispettoso della pluralità di opzioni ideali esistenti nel Paese. In effetti nella scuola pubblica vige da tempo (almeno all’indomani dei Patti lateranensi) un insegnamento confessionale che contraddice l’idea di pluralismo religioso insita nella nozione stessa di Stato moderno e democratico. Dopo 1a revisione del 1984 in Italia non vi è più religione di Stato, ma l’insegnamento della religione cattolica è sempre lì a marcare il territorio: è facoltativo, come ha più volte ribadito la Corte costituzionale, ma è collocato nell’orario obbligatorio delle lezioni e i suoi insegnanti, che i vescovi designano a loro piacimento, sono reclutati con concorso riservato e pagati dallo Stato. Un’anomalia italiana che si aggiunge alle altre singolarità. Vi è un sistema di scuole private paritarie, parallelo a quello pubblico, cui si rivolgono corpose elargizioni delle istituzioni nazionali e locali: un drenaggio impressionante di risorse che finisce con l’impoverire l’istruzione statale, oggetto di un’antica disattenzione da parte delle autorità pubbliche. La sussidiarietà è il principio che ispira una tale politica di finanziamenti, una concezione in sé non riprovevole, ma pericolosa se autorizza lo Stato e i Comuni, titolari in primis dell’educazione, a latitare a favore dell’istruzione privata, in altissima percentuale confessionale, dove la libertà d’insegnamento è spesso carente e, in ogni caso, condizionata dall’ideologia dell’istituzione. Alcuni eventi recenti poi destano allarme in quanti hanno a cuore la laicità della scuola pubblica. Un vescovo “pretende” di incontrare la scolaresca di una scuola media di Ladispoli. Visita pastorale, come sembrerebbe chiaramente? Non lo prevede la legge vigente: ripetute sentenze dei Tar l’escludono in quanto si tratterebbe di una pratica confessionale che avrebbe inevitabilmente un effetto discriminante verso gli alunni non cattolici. No, la cosa viene definita dal dirigente scolastico, con l’avallo del Consiglio d’istituto, un incontro «culturale» e alle critiche dei laici, che lamentano, tra l’altro, la perdita di tempo-scuola per tutti, si replica che si tratta di un evento inclusivo a vantaggio dell’intera scuola. È il vecchio equivoco dell’equazione cattolicesimo = cultura italiana. Altro caso: il papa riceve il 28 novembre scorso rappresentanze degli alunni delle scuole di tutta Italia. Anche qui interruzione del servizio scolastico, evidente discriminazione delle minoranze religiose. Le autorità scolastiche, a partire dal Miur, non trovano nulla da eccepire. In ultimo si apprende che il presidente Napolitano, persona di indubitabile saggezza ed equilibrio, ha firmato il decreto che rigetta il ricorso straordinario (presentato dal padre di un alunno) contro la legittimità delle visite pastorali nelle scuole. Se poi si aggiunge a un quadro già così preoccupante il dato che il sottosegretario all’Istruzione del nuovo governo è la professoressa Elena Ugolini, di estrazione cattolica, dirigente scolastica di una scuola privata, non si può non temere il peggio. «Libera Chiesa in libero Stato», come recitava il celebre motto cavouriano, sembra una parola d’ordine desueta in questo centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Mania di persecuzione di laicisti esasperati in solipsistica autocommiserazione o, viceversa, sincera preoccupazione per le sorti della democrazia e del pluralismo in un settore strategico della vita pubblica?


Confronti - gennaio 2012




 

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