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Scuola, i ragazzi che non avevano mai cantato libertà
Un bambino appena nasce non è né di destra né di sinistra. Proprio per questo con l’andar del tempo, e se nessuno rivaluta come materia scolastica l’“etica morale”, (da non confondere con Religione o Storia delle Religioni), i nostri ragazzi potrebbero diventare i mostri della porta accanto. La loro vita incomincia quando osservano la famiglia e i loro processi sociali, i media e le loro volgarità, i programmi dove fanno parlare la “pancia” della gente. L’idea centrale della prospettiva di Vygotskij , un avvocato russo che si dedicò soprattutto alla psicologia dei ragazzi in fase di apprendimento, dice che lo sviluppo della psiche è guidato e influenzato dal contesto sociale, quindi dalla cultura del particolare luogo e momento storico in cui l’individuo si trova a vivere e che provoca quindi delle stimolazioni nel bambino, e si sviluppa tramite “strumenti” (come il linguaggio) che l’ambiente mette a disposizione.
Per cui i nostri ragazzi cavalcano gli umori, le gesta e le parole del mondo “adulto” e crescono con quello che hanno a disposizione, cioè noi. Ed è quello che è successo in una mia classe nel ricco e nebbioso nord-est. Per spiegare la pena di morte, io insegnante di Musica, ho fatto leggere prima le parole della “Ballata di Sacco e Vanzetti”, e poi l’abbiamo cantata. Con la musica di Ennio Morricone e le parole di Joan Beatz ero sicura del successo che avrebbe avuto, dell’entusiasmo con cui l’avrebbero accolta e soprattutto quando le parole sono più di semplici frasi, perché rappresentano una coscienza collettiva, pensavo ad una rivolta e a una netta scelta contro la pena di morte. Vedendo parecchie mani alzate ho pensato che volessero parlare, volessero dire la loro. Un ragazzo si è alzato e mi ha detto:” Prof, ha visto cosa ha fatto la Cancellieri, se Nicola e Burt avessero avuto il suo numero non sarebbero morti!”.
Aldilà delle risate che ha suscitato il commento, dentro di me sono esplosi due sentimenti: o dargli ragione e nello stesso tempo mi sono stupita della loro superficialità. Quella che giustifica la morte perché qualcuno se lo merita. Far chiudere gli occhi ad una persona è un delitto legalizzato da una legge, che da una parte difende la vita di un ovulo, e dall’altra punta una pistola alla tempia di un uomo. Allora scopri la vera fragilità di certi studenti modello che risolvono tutti i problemi, che sanno analizzare un testo e fanno un’ottima analisi logica. E ti rendi conto che manca la parte più importante per uno sviluppo armonico delle loro identità. Un mondo che sia all’altezza dei loro occhi, di uno spazio divergente, di uno scambio di opinioni che alimentano le relazioni, un esempio, un punto di riferimento, un credo ideologico in cui appoggiare i propri dubbi e placare gli istinti che non trovano pace in questo deserto che chiamano umanità. Mi sono fermata per ascoltarli e tra quel fluire di accuse, pregiudizi, luoghi comuni, ho capito che gli studenti di oggi non distinguono nella società un leader positivo, una persona carismatica, un Don Milani dalle mani sporche. Hanno il disgusto di una vita che fa suicidare persone che non hanno certo la legge elettorale nel pugno, ma stringono l’articolo 1 della Costituzione Italiana. “La repubblica Italiana è fondata sul lavoro”. Quando vedono un Senatore chiamare un ministro “Orango”, o vedono consiglieri regionali che rubano i nostri soldi per comprarsi mutande, Diabolik e pagarsi il bagno, non possono sperare in un mondo diverso. Anzi, per loro, il mondo è questo. Tutto ciò non può passare sul greto del loro fiume a tempo di marcia e non farli esondare, e come le onde, le loro identità si confondono nel branco, diventando qualcosa per cui non sono nati. La scuola è lo specchio della nostra realtà dove il disabile deve far ricorso al Tar per avere quello che è suo di diritto, la nostra scuola non rappresenta più una comunità educante ma un test a cui devi saper rispondere.
Perché la Scuola voluta dai nostri governi non ci pensa neppure un attimo a mettere il ragazzo, il discente, il prossimo cittadino, al centro del suo compito. Oramai hanno tramutato la Scuola in un’azienda dove tutti gli attori si muovono con un copione in mano. Quale spazio per ampliare la creatività, il tempo per insegnare a saper fare, il tempo dell’ascolto, il tempo per essere e non per dimostrare. Dov’è il tempo per regalare gli strumenti più adatti a carpire, a rompere gli schemi, a credere in loro stessi e nella loro disperata vita. Per ascoltarli devi fermarti con loro, dopo che le interrogazioni sono andate come il genitore voleva, perché quando non hanno preso un bel voto, sei un cretino, e tu, devi essere sempre come il figlio dell’amico che è il più bravo dappertutto o quello che gli basta stare attento in classe. Tu in ogni caso, sei sempre il peggiore.
Ti fermi con loro e ti dicono che non troveranno lavoro, che il loro destino è segnato per colpa nostra, che non andranno mai in pensione, che una volta la vita era facile e loro adesso devono ancora chiedere la mancetta ai genitori se vogliono uscire il sabato, che gli extracomunitari ci rubano il lavoro. Ecco che tu insegnante, ti trovi a mediare tra la realtà e le verità apprese da chi crede di volere il loro bene. Correndo il rischio di veder arrivare genitori arrabbiatissimi, docenti che ti ignorano e Dirigenti tagliati solo per creare un divario di casta. Far capir loro che la forza di cambiare la devono trovare studiando, reagendo ad un sistema che farà di tutto per stritolarli, che la Scuola l’hanno distrutta persone che volutamente ci hanno ridotto in polvere per impoverire le loro parole, le loro idee e i loro sogni, non è cosa facile. No, perché quando arrivano a casa la Scuola diventa un peso, non un arricchimento culturale o un bagaglio da portarsi dentro per tutta la vita. Li aspetta il telecomando di un gioco, il bel regalo di Babbo Natale.
Hanno ammazzato la Scuola la cosa più bella che avevamo.
il fatto Quotidiano: di Claudia Pepe